In questa guida spieghiamo quali sono le caratteristiche del contratto di agenzia e mettiamo a disposizione un fac simile di contratto da scaricare.
Definizione e caratteristiche generali
Il contratto di agenzia è un contratto tipico la cui disciplina è massimamente, sebbene non esclusivamente, dettata dal codice civile agli artt. da 1742 a 1753. Disposizioni applicabili a tale contratto, infatti, si ritrovano anche negli Accordi Economici Collettivi (“AEC”) stipulati in data 20 giugno 1956, per gli agenti delle imprese industriali (reso efficace erga omnes in forza del d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 741) ed in data 13 ottobre 1958 per gli agenti delle aziende commerciali (reso efficace erga omnes in forza del d.P.R. 26 dicembre 1960, n. 1842). Per consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee la disciplina nazionale attinente ad un qualsivoglia istituto giuridico deve essere interpretata alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie che siano state emanate per assicurare a detto istituto una applicazione uniforme all’interno degli Stati membri; in relazione al contratto di agenzia la direttiva cui bisogna fare riferimento è la n. 86/653/CEE emanata del Consiglio delle Comunità Europee il 18 dicembre 1986. Un cenno meritano anche gli AEC di diritto comune — privi cioè di efficacia erga omnes- i quali si applicano a quei rapporti di agenzia che ne facciano espresso richiamo o le cui parti ne abbiano implicitamente accettato le clausole mediante consapevole ed uniforme adesione ad esse. Secondo alcuni autori, l’applicazione degli AEC di diritto comune si estenderebbe anche a regolare i rapporti intercorrenti da soggetti che risultino iscritti alle organizzazione di categoria che di tali AEC sono firmatarie.
La definizione della fattispecie in esame è offerta dall’art. 1742 c.c. secondo il quale «con il contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata».
Alla luce di quanto precede gli elementi caratterizzanti il contratto de quo possono individuarsi: (a) nella stabilità-continuità dell’incarico assunto dall’agente; (b) nella localizzazione “spaziale” dell’attività dell’agente; (c) nel contenuto della prestazione dell’agente; (d) nella peculiarità del corrispettivo dovuto all’agente.
La stabilità dell’incarico è riferita al collegamento dell’attività dell’agente — che in quanto “stabile” è “professionalmente” da lui condotta (art. 2082 c.c.) — con una serie indefinita di affari che il preponente può concludere con i potenziali clienti presenti nella zona assegnata (Cass., 16 ottobre 1998, n. 10265), mentre la continuità riguarda la proiezione di tale attività nel tempo; la compresenza di tale duplice elemento differenzia l’agente dal libero procacciatore di affari. L’obbligo di “promuovere la conclusione” di affari — la prestazione principale che l’agente è chiamato a svolgere — consiste nell’opera di sollecitazione alla acquisizione di beni e servizi prodotti o commercializzati dal preponente svolta nei confronti di soggetti potenzialmente interessati a acquistarli; tale aspetto, che si concreta in una attività “materiale”, differenzia l’agente dal mandatario il cui impegno è invece volto al compimento di uno o più atti giuridici (art. 1703 cc.). Al concetto di “zona determinata” — che non significa “circoscritta” o “limitata” potendo estendersi a coprire l’intero territorio nazionale — alcuni autori tendono ad attribuire un significato strettamente “geografico” indicativo del “luogo dell’adempimento” (tesi condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, Cass., 7 gennaio 1978), mentre altri ritengono che il termine “zona” non sia che un riferimento indiretto alla potenziale clientela su di essa stabilita, tanto che sarebbe possibile soddisfare il requisito legale indicando una particolare tipologia di clientela (es. grossisti, centri commerciali, ecc.); questa soluzione sembra oggi trovare conferma nel comma 2 dell’art. 1748 c.c. laddove all’agente è attribuito il diritto a percepire la provvigione c.d. “indiretta” per affari conclusi dal preponente con terzi appartenenti «alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente».
Problemi particolari pone il tema della variazione della zona; la giurisprudenza tende a riconoscere alle parti la possibilità di attribuire al preponente il potere di modificare talune clausole e in particolare quelle relative all’ambito territoriale dell’attività dell’agente trovando ciò giustificazione nell’esigenza di meglio adeguare il rapporto alle mutate esigenze delle parti e ciò purché tale potere abbia dei limiti e in ogni caso sia esercitato dal preponente con l’osservanza dei principi di correttezza e buona fede (Cass., 2 maggio 2000, n. 5467; Cass., 20 maggio 1997, n. 4540); si è sotto questo aspetto deciso che «in una situazione caratterizzata dalla persistenza del rapporto e della prestazione, non possono essere attribuite all’agente nell’eventualità di variazione di zona né l’indennità sostitutiva del preavviso né l’indennità di scioglimento del contratto; tanto più nel caso in cui l’agente stesso abbia accettato la variazione di zona» (Trib. Lodi, 28 febbraio 2000).
Gli AEC di diritto comune attualmente regolano il fenomeno in modo diverso a seconda della entità di tale variazione: è di “lieve entità” e quindi lasciata alla discrezionalità del preponente la riduzione della zona che incida per un valore non superiore al 5% delle provvigioni maturate in favore dell’agente nell’anno precedente la modifica; è di “media entità” la modifica che incida per un valore maggiore del 5% ma minore del 20% delle provvigioni maturate l’anno precedente, e per la quale è disposto che acquisti efficacia solo dopo un periodo di preavviso pari a due mesi per gli agenti plurimandatari e 4 mesi per quelli monomandatari; per le modifiche di «entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto» (e tali sono se incidono per un valore superiore al 20% delle provvigioni dell’anno precedente la variazione) è prevista la comunicazione con un preavviso pari a quello cui il preponente sarebbe tenuto per recedere dal contratto (art. 1750 c.c.); qualora l’agente comunichi al preponente di non accettare la variazione, la comunicazione del preponente vale come dichiarazione di recesso.
La previsione di un corrispettivo in favore dell’agente non pone particolari problematiche anche se la particolare modalità di retribuzione (la “provvigione’) può assumere, insieme a concorrenti circostanze, un significativo rilievo nell’analisi di un importante aspetto del contratto di agenzia: l’autonomia dell’agente rispetto al preponente (cfr. Cass., 24 maggio 1986, n. 3507).
Benché il codice civile non lo preveda espressamente, la stipula di contratti di subagenzia è senza dubbio ammissibile; dò consente all’agente di avvalersi di collaboratori autonomi per la promozione di affari per il preponente “principale”. Trattasi di contratti derivati funzionalmente collegati al, e necessariamente dipendenti dal, contratto di agenzia che si colloca “a monte” di essi. In forza del contratto di subagenzia l’agente incarica un soggetto (il subagente) di svolgere attività di promozione degli affari del preponente “principale” in una zona determinata di sovente ricavata dalla zona in origine a lui assegnata. Al contratto di subagenzia si applica la disciplina di cui agli art. 1742 e seguenti c.c. (Cass., 14 febbraio 2006, n. 3196; Cass., 16 dicembre 2002, n. 17992; Cass., 10 aprile 1999, 3545) con esclusione delle norme relative all’esercizio dei poteri rappresentativi nei confronti dell’impresa preponente (art. 1745 c.c.) salvo che quest’ultima non abbia direttamente attribuito tali poteri al subagente (Cass., 6 agosto 2004, n. 15190).
L’agente quale imprenditore
L’attività che caratterizza la figura dell’agente può essere da questi esercitata con l’ausilio di strutture organizzative più o meno articolate.
Non richiedendo sempre ed in ogni caso l’uso di una rilevante organizzazione di mezzi e di lavoro altrui, nella caratterizzazione “minimale” che può assumere, tale attività può facilmente ricondursi allo schema del lavoro autonomo e — sotto il profilo della fattispecie negoziale — al contratto d’opera; quest’ultimo è definito dall’art. 2222 c.c. come quel rapporto in forza del quale una persona fisica si obbliga a compiere verso un determinato corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.
Una precisazione è però necessaria ove si intenda adattare all’agente il concetto di lavoratore autonomo (o prestatore d’opera): tale concetto, infatti, nel mentre implica una attività reiterata e “professionalmente” svolta —esclusa qui, per ipotesi, la natura intellettuale della stessa — definisce piuttosto la figura dell’imprenditore. L’agente di commercio che emerge tratteggiata dalle norme del codice civile, pertanto, ribadita l’assenza di vincoli di subordinazione con il preponente, è quella di colui che svolge «professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi» (art. 2082 c.c.), un imprenditore, quindi, che alcuni autori assimilano al collaboratore ausiliario di cui all’art. 2195, comma 1, n. 5, c.c. (altri, invece, potendo l’agente essere incaricato da un non imprenditore o da un imprenditore non commerciale, lo riconducono al “produttore di servizi” di cui al n. 1 della citata disposizione).
Ove l’attività di promozione di affari sia svolta dall’agente con lavoro prevalentemente proprio — laddove l’avverbio prevalentemente deve ritenersi indicare un limite inferiore di organizzazione, per cui nulla cambierebbe ove ciò avvenisse “esclusivamente” — ci troveremo di fronte ad un imprenditore “piccolo” (art. 2083 c.c.).
D’altra parte niente impedisce che un agente (si pensi al plurimandatario di grosse imprese industriali o commerciali), incaricato di promuovere affari in una zona di rilevante estensione, acquisti attrezzature, si doti di uno show-room, assuma impiegati e collaboratori, acquisisca spazi da adibire a magazzino, adotti la forma giuridica della società commerciale (di persone o capitali). In questo caso, tale operatore professionale è riconducibile alla figura dell’imprenditore commerciale “ordinario”.
L’autonomia dell’agente
La collaborazione stabile che l’agente instaura con il preponente è dunque attività d’impresa (Cass., 4 luglio 2005, n. 20361). Precisamente le due caratteristiche che la contraddistinguono rispetto alla collaborazione richiesta al, e prestata dal, lavoratore subordinato sono l’autonomia organizzativa e il rischio (Cass., 8 gennaio 2003, n. 84; Cass., 29 dicembre 1998, n. 12865; Cass., 1 settembre 1986, n. 5364). Sotto il primo profilo, l’agente svolge una attività economica da egli stesso “diretta” ed organizzata, per quanto embrionale e poco articolata sia la struttura di cui si avvale (Cass., 12 maggio 2004, n. 9060; Cass., 1° settembre 2003, n. 12756); sotto il secondo profilo l’agente assume il rischio del risultato utile di tale attività, laddove il dipendente trasferisce il rischio medesimo, attraverso la sicurezza della retribuzione, sul proprio datore di lavoro.
Il riflesso di quanto appena detto lo si trova nella struttura del compenso dovuto all’agente per l’opera prestata, compenso normalmente consistente in una somma da calcolarsi in percentuale sull’ammontare dell’affare concluso e regolarmente eseguito dal terzo (“provvigione”). Il diritto a percepire la retribuzione è quindi subordinato al verificarsi di un evento determinato, la conclusione dell’affare e la sua successiva esecuzione, di talché al mancato verificarsi di tale evento, quale che sia stato lo sforzo profuso dall’agente in tal senso, consegue il mancato sorgere del diritto ad essere retribuito (Cass., 15 maggio 2002, n. 7087). Si è giustamente osservato in dottrina, che la prestazione dell’agente è oggetto sia di una obbligazione di mezzi (l’agente è tenuto in ogni caso ad uno sforzo diligente ed assiduo per la conclusione degli affari, oltre che tenuto a tutte le altre prestazioni accessorie in favore del preponente: es. informazione sulle condizioni di mercato, rapporti sulle visite ai clienti ecc.), sia di una obbligazione di risultato e ciò non solo in quanto la maturazione del diritto alla retribuzione è comunque collegata alla regolare esecuzione dell’affare (il c.d. buon fine), quanto perché l’interesse principale del preponente è soddisfatto, più che dallo svolgimento di tale attività, dalla conclusione positiva — nel senso di remunerativa — degli affari promossi.
Coerente con la nozione di agente quale imprenditore, le spese associate allo svolgimento della propria attività di promozione degli affari non possono che essere poste a carico esclusivo del medesimo (mezzi di trasporto, trasferte, pernottamento in alberghi, ristorazione, spese per eventuale personale e struttura stabile, spese telefoniche, di pubblicità, ecc.); anche l’onere delle spese è corollario del concetto di rischio di impresa in quanto potrebbero non essere remunerate adeguatamente con le provvigioni percepite (cfr. art. 1748, ultimo comma, cc.).
La disposizione è in ogni caso derogabile dalle parti.
In quanto imprenditore l’agente può disporre come meglio crede del proprio tempo e delle proprie risorse, degli itinerari da seguire, dei clienti da visitare, delle modalità di esecuzione della propria attività. Peraltro questa autonomia deve essere coordinata con l’obbligo principale che egli ha verso il preponente, di svolgere con continuità un’attività di collaborazione, e può essere attenuata (in misura più o meno elevata, a seconda del settore merceologico e delle esigenze organizzative del preponente) dall’obbligo che è posto a carico dell’agente dall’art. 1746 c.c. di seguire le istruzioni del preponente (sulle direttive ed i controlli del preponente, v. Cass., 27 agosto 2001, n. 11264; Cass., 6 giugno 1985, n. 3387).
Ove l’agente svolga il proprio incarico prevalentemente con il lavoro proprio si è spesso posta la necessità di delinearne la differenza con il lavoratore subordinato.
Secondo la giurisprudenza più recente tale differenza non è apprezzabile in relazione all’oggetto della prestazione concretamente svolta in quanto la stessa può essere dedotta sia in un contratto d’opera (art. 2222 c.c.) sia in un contratto che preveda l’assoggettamento del prestatore di lavoro alle dipendenze ed alla direzione dell’imprenditore (art. 2094 c.c.); nemmeno può darsi rilevanza alla presenza di un obbligo — per quanto intenso esso sia —di riferire al preponente le informazioni acquisite nello svolgimento dell’incarico, né all’assoggettamento dell’agente alle istruzioni impartitegli dal preponente e ciò non solo in quanto il relativo obbligo è espressamente previsto dall’art. 1746 c.c., quanto perché le direttive provenienti dal preponente — e quindi quella cena ingerenza nello svolgimento dell’incarico da parte dell’agente che ne discende — ineriscono al necessario coordinamento tra l’attività del preponente e quella del collaboratore che ne assicura l’efficace e profittevole sinergia (Cass., 6 giugno 1985, n. 3387; Cass., 10 gennaio 1984, n. 183; perspicuamente v. 1 febbraio 1983, n. 873). Ciò che realmente differenzia il lavoratore subordinato dall’agente lavoratore autonomo o piccolo imprenditore è piuttosto, da un lato, l’assenza di soggezione del secondo dal potere disciplinare del preponente, l’assenza di un vincolo di orario e quindi la libertà di decidere — pur nell’alveo delle direttive di massima ricevute — l’itinerario da percorrere e la clientela da visitare, nonché le modalità con le quali acquisire la clientela e/o intrattenere il rapporto con essa (Cass., 1 aprile 2004, n. 6482; Cass., 2 agosto 2003, n. 11794; Cass., 12 marzo 1998, n. 2722; per la definizione del “viaggiatore di commercio” il “piazzista”, quale lavoratore subordinato, cfr. Cass., 2 dicembre 1985, n. 6036; Cass., 14 novembre 1985, n. 5584); dall’altro, l’assunzione da parte dell’agente del rischio che la propria attività non remuneri il tempo dedicatovi e le spese incorse per svolgerla. Si è ritenuto quindi compatibile con la natura autonoma del contratto l’impegno del preponente a rimborsare le spese incorse dall’agente, ovvero la pattuizione di un compenso minimo in favore dell’agente (Cass., 15 maggio 1981, n. 3217), mentre tale compatibilità cesserebbe ove l’agente fosse retribuito in misura fissa, indipendente cioè dal valore e/o dal numero degli affari conclusi.
L’agente parasubordinato
Come osservato, gli aspetti organizzativi dell’attività dell’agente hanno riflessi di diritto sostanziale e processuale. E’ stato rilevato che la normativa di cui agli art. 1742 e seguenti c.c. trova applicazione quale che sia la figura (purché dotata di “autonomia”) dell’agente: se da un lato, infatti, è lo stesso art. 2222 c.c. a stabilire che le norme ad esso successive non si applicano al rapporto che trovi una propria disciplina particolare nel libro IV del codice civile (“Delle Obbligazioni”), dall’altro proprio la presenza degli art. 1742 ss. c.c. impedisce di assoggettare l’attività di promozione di affari alle norme sul contratto di appalto, benché sia naturalmente appaltatore quell’agente che per magnitudine della propria organizzazione non possa definirsi lavoratore autonomo. Ciò nonostante e sebbene il codice civile non preveda figure intermedie tra lavoratore autonomo e quello subordinato, la tendenza mostrata dalle tutele che caratterizzano il diritto del lavoro ad espandersi fino ad occuparsi ed occupare ogni istituto in relazione al quale si ritiene emergano ragioni di protezione sociale ha suggerito la costruzione di un tertium genus di prestatore d’opera: il lavoratore parasubordinato.
Tale sarebbe quel prestatore d’opera o di servizi che — benché vincolato al proprio committente mediante negozi giuridici che non ne dispongono la subordinazione (come avviene ad es. con l’art. 2222 c.c. e l’art. 1742 c.c.) — è ritenuto insufficientemente strutturato per potersi considerare su un piano di parità contrattuale (si parla di subordinazione socio-economica) con il creditore della prestazione a lui richiesta.
In tale ibrida figura rientrerebbe anche l’agente di commercio privo di organizzazione di mezzi tale da potersi qualificare imprenditore non piccolo.
Ne consegue, ad esempio, che le controversie aventi ad oggetto «rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato» (art. 409, n. 3, c.p.c.) sono demandate alla cognizione del giudice del lavoro la cui competenza territoriale non è derogabile dalle parti (art. 413, commi 4 e 8, c.p.c.). Inoltre le transazioni e le rinunce ai diritti inderogabili da parte dell’agente persona fisica che soddisfi il profilo dell’art. 409 cit., sono soggette alla procedura di cui all’art. 2113 c.c. (Cass., 16 giugno 2003, n. 9636; Cass., 4 febbraio 1993, n. 1359; ma, contra, v. Cass., 8 gennaio 1988, n. 6). Ed ancora la domanda che l’agente abbia proposto per ottenere giudizialmente il pagamento di crediti provvigionali non è procedibile se non si sia esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione (artt. 410 e 412bis c.p.c.). Matura, infine, in favore dell’agente “parasubordinato” il diritto a percepire interessi legali e di svalutazione a far data dal sorgere del credito (art. 429, comma 3, c.p.c.; Cass., 6 aprile 2002, n. 4957). Solo i crediti dell’agente prestatore di lavoro autonomo, infine, si ritengono assistiti da privilegio (art. 2751bis, n. 3, c.c.); questa soluzione è peraltro incerta ed oggetto di un contrasto tra decisioni giurisprudenziali che permane anche dopo che la Corte Costituzionale (sentenza n. 1 del 2000) si è pronunciata in favore dell’interpretazione dell’art 1751bis, n. 3, c.c., qui sopra illustrata (si veda sul punto Cass., 14 giugno 2000, n. 8114 e, in senso opposto, Cass., 15 giugno 2000, n. 8171).
La forma del contratto di agenzia
Il comma 2 dell’art. 1742 c.c. stabilisce che il contratto di agenzia «deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento sottoscritto che riproduca il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive. Tale diritto è irrinunciabile». Come si evince da questa disposizione quello in esame è un contratto “a forma libera” e pertanto può essere concluso validamente in forma orale; la mancanza di un documento sottoscritto dalle parti che riproduca le loro volontà riguardo ai termini ed alle condizione che regolano l’incarico di promozione degli affari, quindi, non è causa di nullità dell’accordo. Ciò nonostante la complessità e continuità nel tempo del rapporto che si costituisce tra l’agente ed il preponente e la necessità di quest’ultimo di calibrare il regolamento contrattuale sulle caratteristiche proprie di ciascun rapporto di agenzia, si rivelano in pratica ragioni sufficienti a spingere le parti all’adozione della forma scritta. Il contratto di agenzia, invece, può essere provato solo per iscritto; ciò significa che non potranno essere provate per testimoni le modifiche intervenute negli elementi del contratto, come la eliminazione o restrizione dell’esclusiva territoriale o per categoria di clientela, le modifiche alla zona assegnata, le modifiche ai termini del diritto alla percezione delle provvigioni ecc. Resta il diritto di ciascuna parte di ottenere dall’altra un documento sottoscritto “che riproduca” il contenuto dell’accordo e le clausole ad esso successivamente aggiunte, accordo che, in assenza dell’esercizio di tale diritto, può validamente vivere in forza di un accordo verbale.
L’onere di forma ad probationem non si estende alla risoluzione per mutuo consenso, che può implicitamente desumersi dal comportamento delle parti che concordemente cessano di eseguire le proprie reciproche prestazioni (Cass., 16 agosto 2004, n. 15959).
L’iscrizione nel ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio
Ai sensi dell’art. 9 l 3 maggio 1985, n. 204 (ma già ai sensi della l 12 marzo 1968, n. 316), è «fatto divieto a chi non è iscritto al ruolo di cui alla presente legge di esercitare l’attività di agente o rappresentante di commercio» (ruolo al quale, ex art. 6, comma 1, l 204, cit deve iscriversi il legale rappresentante degli agenti aventi forma giuridica di società commerciale). A carico dei trasgressori di questa disposizione, il comma 2 dell’art. 9 cit. commina una sanzione amministrativa. La giurisprudenza dal canto proprio ha esteso le conseguenze della sottoscrizione del contratto di agenzia da parte di un soggetto non iscritto nell’apposito molo fino a dichiarare la nullità del contratto medesimo per violazione di norma imperativa (art. 1418 c.c.) stabilendo altresì che non sia applicabile ad esso — essendo norma eccezionale — l’art. 2126 c.c. secondo il quale «la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi da illiceità dell’oggetto o della causa». La situazione attuale è radicalmente mutata in seguito all’intervento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (causa C-215 del 30 aprile 1998) chiamata a decidere sulla questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con la Direttiva 86/653/CEE delle norme della 1. 204/1985 cit. laddove condizionano la validità dei contratti di agenzia all’iscrizione dell’agente in un apposito ruolo. Premesso che la richiamata Direttiva non impone né vieta agli Stati membri di istituire un albo o ruolo al quale gli agenti di commercio debbano iscriversi e che quindi tale aspetto è lasciato alla discrezionalità di ciascuno di tali Stati (sul punto anche CGCE, 6 marzo 2003, n. 485/01), la Corte ha stabilito che la Direttiva medesima descrive l’agente quale soggetto dedito allo svolgimento di una particolare attività economica senza alcun riferimento alla necessità per il medesimo di essere iscritto ad albi o ruoli; la tutela prevista dalla Direttiva in favore di colui che promuove stabilmente affari per conto di un’impresa — compreso ovviamente il diritto di percepire le provvigioni e le indennità stabilite dalla legge — deve essere quindi garantita anche in mancanza di tale iscrizione. In conclusione: salva la facoltà di prescrivere una forma determinata per la sottoscrizione di contratti di agenzia gli Stati membri non possono imporre ulteriori requisiti ai quali subordinare la loro validità. La decisione della Corte di Giustizia ha comportato una revisione dell’orientamento della Corte di Cassazione la quale ha recentemente stabilito che sono validi i contratti di agenzia stipulati a decorrere dal 1° gennaio 1994 — data in cui avrebbe dovuto essere recepita dallo Stato italiano la Direttiva 86/653/CEE del 18 dicembre 1986 — da chi non è iscritto al ruolo degli agenti, mentre sono ancora affetti da nullità ai sensi dell’art. 9 l 3 maggio 1985, n. 204 ove i predetti soggetti li abbiano stipulati precedentemente a tale data (Cass., 14 settembre 2005, n. 18202; Cass., 14 ottobre 2004, n. 20275; Cass., 17 aprile 2002, n. 5505; Cass., 18 maggio 1999, n. 4817; Cass., 18 marzo 2002, n. 3914).
Diritti e doveri dell’agente
Nello svolgimento dell’incarico affidatogli l’agente è tenuto a comportarsi con diligenza (inclusiva dei concetti di “perizia” e “prudenza’), lealtà e buona fede nei confronti del preponente, ad impiegare le energie e lo sforzo che è lecito attendersi avendo riguardo “alla natura dell’attività esercitata” — criterio rigoroso che tiene conto del particolare affidamento che il preponente ha ragione di riporre nell’abilità dell’agente quale soggetto pur sempre dedito allo svolgimento di una attività “professionale” (art. 1176, comma 2, c.c.) — ed a compiere tutti quegli atti volti a tutelare i diritti del preponente anche nei confronti di terzi. Nel dovere di diligenza, in particolare, rientra anche il dovere di “assiduità” della prestazione nel senso di impegno proattivo rispetto alle finalità perseguite dal preponente attraverso la collaborazione con l’agente: se è vero infatti che il diritto a percepire il corrispettivo provvigionale è subordinato al verificarsi di un risultato (la conclusione e regolare esecuzione dell’affare), è altresì vero che l’obbligazione dell’agente è anche — vale ripeterlo — una obbligazione “di mezzi”, intesa come attività costantemente tesa alla realizzazione di un interesse di cui il preponente è titolare.
In quanto ausiliario dell’imprenditore l’agente è tenuto a seguire le «istruzioni ricevute e fornire al preponente le informazioni riguardanti le condizioni di mercato nella zona assegnatagli ed ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari». Sarà dovere quindi dell’agente quello di presenziare alle riunioni indette dal preponente per coordinare ed istruire la forza vendita, quelli di compilare ed inviare al preponente relazioni periodiche sull’andamento dell’attività, quello di fornire al preponente le informazioni utili alla penetrazione del mercato (si pensi alla presenza di particolari fattori “ambientali” di natura legale o di fatto che possano affettare la vendita dei prodotti nella zona affidata all’agente, alle condizioni di vendita praticate dalle imprese concorrenti, ecc.), quello di selezionare con diligenza la clientela evitando di concludere affari con persone di cui è dubbia la solvibilità, di intervenire sui clienti che siano in ritardo nel pagamento della merce acquistata dal preponente, assistere i clienti illustrando loro il prodotto ed agendo come liaison tra loro ed il preponente.
L’agente non ha facoltà di riscuotere i crediti del preponente, mentre nel caso in cui tale facoltà sia stata a lui conferita, è interdetta all’agente la possibilità di concedere sconti sul prezzo o dilazioni sui termini di pagamento salvo che non sia stato a ciò espressamente autorizzato (art. 1744 c.c.). La giurisprudenza ritiene che il conferimento dell’incarico riscossione dei crediti non debba essere specificamente remunerato (“indennità di incasso”) ma che il corrispettivo per lo svolgimento di tale attività si presuma essere ricompreso nell’ammontare percentuale della provvigione (Cass., 12 giugno 2987, n. 5177); presunzione opposta — e quindi in favore della necessità di un compenso separato — opera nel caso in cui l’incarico di riscossione sia stato conferito all’agente in corso di rapporto (Cass., 5 giugno 2000, n. 7481).
Nel caso in cui l’agente si trovi nell’impossibilità di eseguire l’incarico affidatogli, quale che ne sia il motivo, di tale circostanza deve dare immediato avviso al preponente affinché questi possa prendere tempestivamente i provvedimenti più opportuni; tale obbligo si giustifica non solo in quanto la continuità e la stabilità dello svolgimento dell’incarico costituiscono caratteristiche essenziali dell’incarico agenziale, quanto perché come ausiliario dell’imprenditore e suo collaboratore l’agente ha obblighi specifici di protezione degli interessi del preponente. L’omessa tempestiva comunicazione dell’impedimento da parte dell’agente costituisce una ipotesi di inadempimento contrattuale (artt. 1281, 1374 c.c.) dal quale deriva l’obbligazione di risarcire i danni così causati al preponente (art. 1747 c.c.).
Diritti e doveri del preponente
Specularmente all’impegno di diligenza e lealtà che si richiede all’agente, anche al preponente è richiesto di «agire con lealtà e buona fede» nei rapporti con l’agente (art. 1749, comma 1, c.c.). Oltre agli specifici doveri che gravano su di lui in forza di legge e di contratto, il preponente deve altresì collaborare con l’agente al fine di consentire a questi di svolgere al meglio il proprio incarico. In questo senso il preponente «deve mettere a disposizione dell’agente la documentazione necessaria relativa ai beni o servizi trattati e fornire all’agente le informazioni necessarie all’esecuzione del contratto»; in particolare, il preponente è tenuto ad avvertire l’agente entro un termine ragionevole «che il volume delle operazioni commerciali sarà notevolmente inferiore a quello che l’agente avrebbe potuto normalmente attendersi» (art. 1749, comma 1, c.c.). Emerge qui con chiarezza l’aspetto fiduciario sotteso al rapporto di collaborazione tra l’imprenditore ed il proprio ausiliario. Le informazioni sul probabile decremento del giro d’affari del preponente — informazioni delle quali, spesso, solo il preponente è in possesso — sono tali da permettere all’agente di meglio programmare la propria attività e di far fronte alle mutate aspettative di guadagno. Un atteggiamento o-mertoso da parte del preponente si configura quindi come una violazione del dovere di leale e trasparente collaborazione.
Prosegue la norma richiamata disponendo che «il preponente deve inoltre informare l’agente, entro un termine ragionevole dell’accettazione o del rifiuto e della mancata esecuzione di un affare procuratogli». Si noti qui come sia pacifico che il preponente non abbia obbligo alcuno di accettare gli affari proposti dall’agente; fino al limite del rifiuto sistematico, immotivato e pretestuoso — infatti — costitutivo di una condotta ostile ed emulativa (e quindi illecita), il preponente è libero di non dare corso alle proposte pervenute lui per il tramite dell’agente (App. Milano, 2 agosto 2005; Cass., 18 settembre 1991, n. 9697). Potendo peraltro l’agente nutrire una legittima aspettativa di conclusione degli affari proposti, almeno ove essi rispecchino le condizioni generalmente praticate dall’impresa, il rifiuto opposto dal preponente — specie se non noto all’agente — potrebbe essere causa di frustrazione di attese tutelabili e quindi di danni ingiusti; di questa preoccupazione si fa carico l’art. 5 dell’AEC 2002 settore industria il quale prevede che «nei contratti individuali potrà essere stabilito un termine per l’accettazione o il rifiuto, totale o parziale, da parte del preponente delle proposte d’ordine trasmesse dall’agente. In assenza del termine di cui sopra, le proposte d’ordine si intenderanno accettate, ai soli fini del diritto alla provvigione, se non rifiutate dal preponente entro sessanta giorni dalla data di ricevimento delle proposte stesse» (nessuna specifica previsione è stabilita a tal proposito dall’AEC 2002 settore commerciale).
Il diritto di esclusiva
L’agente ha diritto di assumere incarichi di promuovere affari per più di una impresa (c.d. “agente plurimandatario”), così come il preponente può affidare la promozione dei propri affari a più di un agente. Tale diritto però non è illimitato. L’art. 1743 c.c. infatti attribuisce ad entrambe le parti un diritto di esclusiva relativamente alla zona affidata all’agente ed al “ramo di attività” svolto dal preponente. Mentre quindi il preponente non può avvalersi di più agenti contemporaneamente nella stessa zona per la promozione di affari rientranti in un medesimo settore commerciale, l’agente non può assumere l’incarico di promuovere affari relativi al medesimo settore commerciale e nella medesima zona per più imprese in concorrenza tra loro. Quanto precede può essere oggetto di deroga per volontà delle parti (Cass., 23 aprile 2002, n. 5920).
Star del credere e responsabilità dell’agente per l’adempimento del terzo
Nella sua formulazione originaria, l’art. 1746, comma 2, c.c. poneva a carico dell’agente «gli obblighi che incombono sul commissionario in quanto non [fossero] esclusi dalla natura del contratto di agenzia». Tra di essi assumeva particolare rilevanza quello di cui all’art. 1736 c.c. il quale ancora oggi dispone che il commissionario — e quindi, vigente il rinvio, l’agente — ove in virtù «di patto o di uso [sia] tenuto allo “star del credere” risponde nei confronti del [preponente] per l’esecuzione dell’affare». Lo “star del credere” è una forma di garanzia dovuta dal commissionario al committente in relazione al pagamento del prezzo della merce che il commissionario consegna ai propri clienti, persone o società la cui onestà e solvibilità spesso solo il commissionario è in grado di conoscere e valutare.
Traslato all’interno del contratto di agenzia l’istituto dello star del credere svolgeva una funzione di deterrente sull’agente avverso atteggiamenti caratterizzati da leggerezza ed incuria nella selezione della clientela presso la quale sollecitare la conclusione di affari; ciò sempre in base all’assunto — in qualche modo coerente con la funzione di ausiliario dell’impresa svolta dall’agente di commercio — che il preponente non fosse pienamente capace di valutare ogni singolo potenziale acquirente nello stesso modo in cui lo è colui che frequenti assiduamente uno specifico ambito territoriale. In forza di tale clausola l’agente non solo non percepiva alcuna provvigione per i contratti non adempiuti dal cliente, ma partecipava anche al rischio di impresa del preponente sopportando anche parte delle perdita da questi subite; e ciò a prescindere da qualsiasi negligenza, avendo l’obbligo di garanzia derivante dallo “star del credere” natura oggettiva (Cass., 3 giugno 1999, n. 5441; Cass., 10 marzo 1994, n. 2356).
Già in passato specifiche clausole degli AEC ponevano una limitazione alla misura della “perdita” subita dal preponente in ragione dell’inadempimento del terzo che poteva essere posta a carico dell’agente. Gli AEC del 20 giugno 1956 limitavano la misura della “responsabilità” dell’agente al 20% di tale perdita (Cass., 19 novembre 1999, n. 12879); gli artt. 7 ed 8 degli AEC di diritto comune (rispettivamente del settore industria e commercio) stipulati nel 1988 la limitavano al triplo della provvigione associata all’affare non regolarmente eseguito e comunque al 15% della perdita subita dal preponente.
Negli Accordi Economici Collettivi stipulati nel 2002, alla luce della novella del 1999, lo star del credere non trova più alcuna regolamentazione.
In seguito all’approvazione del d.lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, il comma 2 dell’art. 1746 c.c. è stato integrato con l’espressa esclusione dal novero degli obblighi gravanti sull’agente di «quelli di cui all’art. 1736 c.c.». Il comma successivo, anzi, dichiara «vietato il patto che ponga a carico dell’agente una responsabilità, anche solo parziale, per l’adempimento del terzo». Prosegue tale disposizione consentendo alle parti eccezionalmente «di concordare di volta in volta la concessione di una apposita garanzia da parte dell’agente, purché ciò avvenga con riferimento a singoli affari, di particolare natura ed importo, individualmente determinati; l’obbligo di garanzia assunto dall’agente non sia di ammontare più elevato della provvigione che per quell’affare l’agente medesimo avrebbe diritto; sia previsto per l’agente un apposito corrispettivo». Conseguenza di questa disposizione è, ovviamente, la nullità di quelle clausole dei contratti di agenzia che pongono in via generale ed indiscriminata una responsabilità a carico dell’agente per via dell’inadempimento di cui i clienti del preponente si rendono responsabili.
Tale responsabilità dovrà quindi essere di volta in volta negoziata e remunerata, individuata per particolari tipologie di affari e contenuta nel limite quantitativo determinato dalla legge. Resta comunque intatto il dovere dell’agente — la cui violazione è sanzionato dalle norme sul risarcimento del danno da inadempimento — di comunicare al preponente le circostanze note all’agente (o che avrebbero dovuto esserlo usando la necessaria diligenza) per le quali sia sconsigliabile o comunque sia caratterizzata da rischi specifici la conclusione di un particolare affare o la prosecuzione di affari con un particolare cliente.
La retribuzione dell’agente
Come indicato sopra, la prestazione cui l’agente si obbliga è considerata sia “di mezzi” che “di risultato”.
La struttura della remunerazione che meglio corrisponde a questa duplice natura dell’attività dell’agente è quella “provvigionale”: l’agente è cioè remunerato con una somma calcolata in percentuale del valore degli affari «conclusi per effetto del suo intervento» (art. 1748, comma 1, cc.). Vale precisare qui che ai sensi del comma 2 dell’art. 1748 c.c. spettano all’agente le provvigioni anche in relazione agli affari abbia eseguito direttamente con clienti situati nella zona contrattualmente attribuita all’agente.
Nonostante il compenso a provvigioni corrisponda a quanto normalmente accade, niente vieta che esso consista in una somma fissa per ogni contratto concluso, quale che ne sia il valore, ovvero anche nell’eccedenza tra il prezzo della merce fissato dal preponente ed il prezzo di vendita ottenuto dall’agente. È invece negata la possibilità di pattuire il compenso in misura fissa (annuale o mensile), svincolata cioè dalla conclusione o meno degli affari promossi per il preponente: in quanto tale tipologia di compenso — costituendo in sostanza una retribuzione parificabile a quella tipica del rapporto di lavoro subordinato — sterilizzerebbe il rapporto di agenzia dal rischio di impresa che naturalmente lo caratterizza (avverso a tale possibilità si è pronunciata Cass., 9 ottobre 1991, 10588; Cass., 24 maggio 1986, n. 3507).
Il tema della remunerazione dell’agente può essere scomposto in più “momenti” rilevanti: l’insorgere del diritto, ovvero — usando la terminologia del codice — il momento dal quale le provvigioni “spettano” all’agente; la liquidazione delle provvigioni; il pagamento delle provvigioni liquidate. Vale fin d’ora sottolineare che è nullo ogni patto teso a modificare quanto stabilito dall’art. 1749 cc. in tema di obblighi del preponente in ordine alla liquidazione ed il pagamento delle provvigioni in favore dell’agente.
La maturazione del diritto alle provvigioni
Ai sensi del comma 4 dell’art. 1748 c.c. «salvo che sia diversamente pattuito», il diritto alla provvigione sorge in favore dell’agente «dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione in base al contratto concluso con il terzo». Come si evince dal testo della disposizione normativa la provvigione non spetta all’agente «al buon fine dell’affare» ovvero al momento in cui il terzo contraente ha adempiuto alla propria obbligazione (massimamente quella di pagare il prezzo della merce acquistata); se l’obbligazione a carico del preponente (es. consegna della merce) deve essere eseguita entro un termine antecedente a quello concesso all’acquirente per eseguire quella a proprio carico (eventualità che si verifica pressoché senza eccezioni in molti settori del commercio e dell’industria) l’agente ha diritto al pagamento della provvigione pattuita nel momento in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la propria prestazione secondo quanto stabilito nel contratto concluso. La legge, come visto, permette comunque alle parti di “ristabilire” quanto era pratica usuale prima del 1991, sancita anche dal codice civile: il pagamento al “buon fine” dell’affare. La norma da ultimo citata, peraltro, stabilisce — a tutela dell’agente — che la provvigione «spetta all’agente, al più tardi, inderogabilmente dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico». Ciò significa che se il terzo non adempia alla propria obbligazione a causa dell’inadempimento da parte del preponente della obbligazione propria, la provvigione è comunque dovuta in favore dell’agente a far data dal termine in cui la prestazione a carico del preponente avrebbe dovuto essere correttamente eseguita. A fronte della certezza che il contratto non sarà eseguito per cause non imputabili al preponente (cause di forza maggiore, impossibilità sopravvenuta, inadempimento del terzo), l’agente sarà tenuto a restituire le provvigioni eventualmente percepite, oltre che, diversamente, perdere il diritto a percepirle. Nel caso in cui il preponente ed il terzo si accordino per non dare esecuzione (in tutto o in parte) all’affare concluso <d’agente ha diritto, per la parte ineseguita, ad una provvigione ridotta determinata dagli usi o, in mancanza, dal giudice secondo equità».
L’agente ha altresì diritto a percepire la provvigione per gli affari conclusi dopo la data di scioglimento del rapporto di agenzia «se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari si sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta».
La liquidazione ed il pagamento delle provvigioni
Essendo calcolate a percentuale del valore di uno o — più verosimilmente — una serie spesso complessa di affari, ovvero essendo calcolate comunque in relazione al numero degli affari conclusi o in relazione ad uno spread tra prezzi minimi alla fabbrica e quelli corrisposti dal cliente, la quantità delle stesse deve essere “liquidata”, ovvero tradotta in una somma esatta. E’ obbligo di collaborazione a carico del preponente (che è il soggetto sicuramente — se forse non esclusivamente — in possesso di tutti i dati necessari) quello di procedere alla liquidazione delle provvigioni dovute all’agente. E’ altresì obbligo del preponente fornire all’agente, al più tardi entro l’ultimo giorno del mese successivo al trimestre nel corso del quale sono maturate «un estratto conto delle provvigioni dovute.
L’estratto conto indica gli elementi essenziali in base ai quali è stato effettuato il calcolo delle provvigioni» (art. 1749, comma 2, c.c.).
Ovviamente, proprio in quanto possessore di dati ed informazioni che difficilmente l’agente potrebbe confermare o smentire autonomamente, il preponente è tenuto a consegnare all’agente che le richieda «tutte le informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate ed in particolare un estratto dei libri contabili» (art. 1749, comma 3, c.c.; Cass., 5 settembre 2007, n. 18586).
Una volta liquidate dal preponente, le provvigioni devono essere pagate all’agente. Ai sensi del comma 2 dell’art. 1749 c.c. le provvigioni liquidate devono essere corrisposte al più tardi entro il medesimo termine che la legge prevede per la consegna all’agente dell’estratto conto che riporta i criteri in forza dei quali le stesse sono state liquidate.
Durata del contratto di agenzia
Il contratto di agenzia è essenzialmente un contratto di durata, nel senso che si estende necessariamente in un arco più o meno ampio di tempo (Cass., 17 dicembre 1994, n. 10834). Sul punto la dottrina ha correttamente osservato che le prestazioni dedotte nel contratto di agenzia sono ad esecuzione continuata e periodica: è continuata l’obbligazione dell’agente di promuovere gli affari per conto del preponente; è periodica l’obbligazione del preponente di corrispondere all’agente le provvigioni maturate sugli affari positivamente conclusi.
Si ritiene coerente con la natura di contratto di durata la possibilità delle parti di apporre al contratto di agenzia un termine finale; la differenza di disciplina tra un contratto di agenzia a tempo determinato ed uno a tempo indeterminato è apprezzabile sul piano del diritto delle parti di recedere da esso liberamente. Ai sensi del comma 1 dell’art. 1750 c.c. il contratto di agenzia stabilito a tempo determinato si trasforma in contratto a tempo indeterminato ove le parti, successivamente alla scadenza del termine, ne abbiano continuato l’esecuzione.
Il recesso dal contratto di agenzia. La risoluzione del contratto. Il periodo di prova
Dal contratto di agenzia a tempo indeterminato — quale che ne sia stata la genesi (originaria o per prosecuzione successiva alla scadenza del termine) —ciascuna delle parti può liberamente recedere. Non è necessaria a tal fine alcuna giustificazione particolare, né è richiesta alcuna formalità se non che se ne comunichi la volontà all’altra parte con un congruo preavviso; pendente il termine di preavviso il contratto produce normalmente i propri effetti in favore ed a carico di ciascuna delle parti.
Il comma 3 dell’art. 1750 c.c. stabilisce termini minimi di preavviso variabili da un mese a sei mesi secondo la durata del contratto di agenzia oggetto di recesso; le parti possono convenire termini di preavviso superiori a quelli stabiliti dalla legge e possono altresì stabilire, ma solo in favore dell’agente, termini di preavviso inferiori.
Fino al 1991, il comma 2 dell’art. 1750 c.c. consentiva che il termine di preavviso fosse sostituito «dal pagamento di una corrispondente indennità», indennità chiamata, appunto, «sostitutiva di mancato preavviso». Tale locuzione è oggi assente dal testo novellato dell’articolo in questione. La dottrina peraltro ha ritenuto che tale facoltà permanga in capo alle parti ai sensi dell’art. 8 dell’AEC 20 giugno 1956 (efficace erga omnes), secondo il quale «ove la ditta preferisca esonerare senz’altro l’agente o rappresentante dalla prestazione, dovrà corrispondergli, in sostituzione del preavviso, una somma pari a tanti dodicesimi delle provvigioni liquidate nell’anno solare precedente quanti sono i mesi di preavviso spettanti all’agente o rappresentante o una somma a questa proporzionale in caso di esonero da una parte del preavviso» (contra, però Trib. Firenze, 23 luglio 2001).
Il preavviso, peraltro, non è dovuto dalla parte che esercita il recesso ove esso sia stato determinato dall’inadempimento di cui l’altra parte si è resa responsabile. In questo senso per molti anni si è dibattuto sull’applicabilità al contratto di agenzia dell’art. 2119 c.c. relativo al contratto di lavoro subordinato, che prevede il recesso senza preavviso ove una simile decisione sia supportata da una “giusta causa”; ancora oggi la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie ritengono che tale norma si applichi al contratto di agenzia. La questione peraltro sembra essere stata risolta dal comma 3 dell’art. 1751 c.c., il quale stabilisce che nessuna indennità di cessazione del rapporto è dovuta all’agente in conseguenza del recesso esercitato dal preponente ove tale decisione sia stata presa a causa di circostanze imputabili all’agente «che per la loro gravità non consentono la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto»; chiaro, sebbene implicito, appare nel dettato normativo — peraltro applicabile anche al caso del recesso dell’agente — l’esonero del recedente dall’obbligazione di dare un preavviso all’altra parte.
La giusta causa di recesso senza preavviso è generalmente rinvenuta in presenza di violazioni di doveri fondamentali delle parti (Cass., 12 giugno 2000, n. 7986) dalle quali ne esca minato il sostrato fiduciario che anima il rapporto in esame: tali sono state ritenute la violazione da parte dell’agente del divieto di concorrenza (Trib. Roma, 22 aprile 1994), l’aver trattenuto somme ricevute dai clienti, la violazione dell’obbligo di esclusiva; diversamente si è deciso in ordine alla decisione dell’agente di avvalersi di un collaboratore in assenza di autorizzazione del preponente o non aver presenziato ad una riunione della forza vendite o l’aver ritardato l’invio di relazioni periodiche. Per quanto attiene il preponente, giustifica il recesso immediato dell’agente il mancato pagamento delle provvigioni, il sistematico ed immotivato rifiuto di dar corso ad affari proposti dall’agente.
Per quanto riguarda il contratto di agenzia convenuto per un tempo determinato, l’esperienza insegna che pressoché sempre le parti ne integrano il regolamento con clausole risolutive espresse (art. 1456 c.c.) o clausole di recesso convenzionale (art. 1343 c.c.) da invocare al verificarsi di certune circostanze. Diversamente ai contraenti è preclusa la possibilità di recedere dal contratto ed il recesso intimato da una parte all’altra è inefficace; se la parte recedente desse corso alla propria volontà cessando l’esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto si renderebbe responsabile di inadempimento e si esporrebbe all’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1223 ss. c.c.
Ciò non significa che il contratto di agenzia — oltre che in forza di mutuo dissenso delle parti — non possa essere risolto in ragione di quelle cause che giustificano la risoluzione di ogni altro contratto: l’inadempimento grave di uno dei contraenti (art. 1564 c.c., che adatta ai contratti di durata i principi di gravità dell’inadempimento di cui all’art. 1455 c.c.; art. 1456 c.c.; art. 1454 c.c.), l’impossibilità o l’eccessiva onerosità sopravvenuta di una delle prestazioni (artt. 1463, 1467 c.c.). Vale rilevare poi che alcuni autori ed alcune decisioni di legittimità hanno ritenuto applicabile il recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. anche al contratto di agenzia stipulato per un tempo determinato (Cass., 9 luglio 1979, n. 3942; Cass., 13 dicembre 1982, n. 6857).
Non è raro rinvenire nei contratti di agenzia un periodo definito “di prova” teso a conferire all’agente ed al preponente l’opportunità di valutare concretamente la sussistenza di una reciproca convenienza a stabilizzare il loro rapporto di collaborazione e riservandosi la possibilità di recedere senza necessità di alcun preavviso. Sulla validità di questo accordo la dottrina è divisa, alcuni autori opinando per l’invalidità di esso nella misura in cui esenti il preponente dall’obbligo di dare all’agente il preavviso di recesso. La giurisprudenza, invece, sembra finora propensa a darne una valutazione di conformità a legge (Cass., 22 gennaio 1991, n. 544; Cass., 19 maggio 1990, n. 4541).
Si ritiene che la durata del patto debba essere limitata al tempo necessario alla parti per maturare il convincimento sulla potenziale profittabilità del rapporto e che non sia comunque lecito prevedere una serie consecutiva di periodi di prova.
L’indennità di cessazione del rapporto
Ai sensi dell’art. 1751 c.c. — come interpretato alla luce della direttiva del Consiglio della Comunità Europea 18 dicembre 1986, 86/653/CEE e della decisione della CGCE, 23 marzo 2006, causa C-465/04 – all’atto della cessazione del rapporto il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se e nella misura in cui ricorrono — cumulativamente — le seguenti circostanze: (a) l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti ed il preponente riceva ancora vantaggi sostanziali — qui da intendersi nel senso di rilevanti — derivanti dagli affari con tali clienti; (b) il pagamento di tale indennità sia equo tenuto conto di tutte le circostanze del caso con particolare riferimento alle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. L’indennità appare dovuta all’agente quale che sia il numero della clientela procacciata purché da essa possa dirsi — con la certezza propria dei giudizi prognostici — che da essa deriveranno al preponente rilevanti vantaggi in termine di giro d’affari; in relazione allo sviluppo della clientela originaria, invece, è necessario che l’incremento degli affari conclusi dal preponente superi una qualche “soglia critica” in difetto di che nessuna indennità è dovuta all’agente. Si richiede anche in questo secondo caso la positiva previsione di futuri benefici in favore del preponente.
La rado che sottende la concessione in favore dell’agente ed a carico del preponente del diritto a ricevere una simile indennità deve ricondursi alla ritenuta opportunità di compensare tale collaboratore dei benefici che — in termini di acquisizione di nuova clientela o di incremento del giro di affari con la clientela originaria — la di lui attività ha procurato al preponente, benefici dei quali quest’ultimo continua a godere anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia; tale istanza è rafforzata dal riferimento alla perdita che l’agente subisce in termini di mancata percezione delle provvigioni dovute agli affari fatti dal preponente con i nuovi clienti o con la clientela sviluppata.
Il comma 3 dell’art. 1751 c.c. stabilisce che l’importo dell’indennità non possa superare una somma equivalente ad una indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto ha avuto una minor durata, sulla media del periodo in questione.
La quantificazione dell’indennità di cui all’art. 1751 c.c. è senza dubbio l’aspetto più complesso che il contratto di agenzia pone all’interprete e sul quale per lunghi anni dottrina e giurisprudenza hanno adottato soluzioni contrastanti. Non solo, infatti, la materia è oggetto di concorrenti disposizioni contrattuali collettive (gli Accordi Economici Collettivi) la cui efficacia deve fare i conti — oltre che con la generale problematica della applicabilità tout court di tali accordi in favore e contro soggetti non appartenenti alle organizzazioni che li hanno sottoscritti — con il comma 6 dell’art. 1751 c.c., il quale consente alle parti di derogare alla disciplina legale dell’indennità solo in senso più favorevole all’agente; ma la stessa necessità di adottare i medesimi elementi sia al fine di stabilire l’effettiva esistenza del diritto dell’agente a ricevere l’indennità, che a stabilirne l’ammontare, e l’assenza di criteri guida atti ad individuare il peso specifico di detti elementi nell’economia del giudizio (ad esempio, l’equità del pagamento rispetto all’apporto di nuova clientela o allo sviluppo di quella vecchia), hanno reso la questione assai controversa.
In attesa che la prassi giudiziale individui un criterio di calcolo dell’indennità in parola che trovi poi uniforme applicazione, vale riassumere lo stato della più recente giurisprudenza:
(A) secondo la sentenza della CCGE, 23 marzo 2006, cit: gli AEC di diritto comune possono derogare alla disciplina sull’indennità di cessazione del rapporto così come disposta dalla Direttiva 86/653/CEE solo se al momento in cui tale deroga è convenuta è possibile escludere che essa risulterà, al momento della cessazione del contatto di agenzia in relazione a qualsiasi ipotesi concreta, sfavorevole all’agente; ovvero si possa affermare che questi riceverà, grazie a tale deroga, una indennità almeno uguale a quella che egli avrebbe ricevuto in applicazione della normativa legale. La valutazione qui suggerita deve essere fatta “ex ante”, prescindendo dal caso concreto; (ii) premesso che gli elementi costitutivi del diritto alla indennità di cessazione del contratto sono tassativi e non è possibile disattenderli in sede di accertamento e quantificazione del diritto medesimo, la adozione della concreta modalità di calcolo — sintetica o analitica — è lasciata alla discrezionalità del legislatore o delle Corti dei singoli Stati membri.
Alla luce di questa decisione alcune decisioni hanno ritenuto che le disposizioni degli AEC stipulati nel 1992 e nel 2002 relative alla quantificazione dell’indennità di cessazione del rapporto, benché adottate con l’espressa intenzione di dare corretta attuazione all’art. 1751 c.c., non soddisfino i criteri in tale decisione delineati e quindi debbano essere dichiarate invalide (Cass., 19 febbraio 2008, n. 4056; Cass., 16 gennaio 2008, n. 687).
(B) secondo la Corte di Cassazione, successiva alla decisione della Corte di Giustizia sopra riferita: (i) è fondata la tesi per la quale è possibile giudicare se una disciplina è migliorativa o peggiorativa di un’altra rispetto al diritto dell’agente a percepire l’indennità in parola, solo in sede di cessazione del contratto, dovendosi dunque prediligere la tecnica del giudizio in concreto ed “ex pose’ (Cass., 3 ottobre 21301; contra, più in aderenza alla sentenza della Corte di Giustizia, App. Cagliari, 12 aprile 2006); (ii gli AEC — vale aggiungere: nei termini in cui siano applicabili al caso in esame sotto il profilo dell’efficacia soggettiva — sono validi solo nella misura in cui li si consideri come “trattamento minimo” in favore dell’agente, trattamento che potrà essere superato da una valutazione dei criteri di cui all’art. 1751 c.c. in concreto più favorevole all’agente (Cass., 24 luglio 2007, n. 16347; Trib. Pistoia, 2 marzo 2007); (iii) in sede di calcolo dell’indennità spettante all’agente il giudice italiano potrà adottare una valutazione sintetica e globale (e non necessariamente analitica e puntuale) dei presupposti legali stabiliti dalla Direttiva 86/653/CEE dando maggior spazio al criterio equitativo che prenda in considerazione anche circostanze di fatto estranee al contesto contrattuale; (iv) il punto di partenza del computo dell’indennità sarà il limite massimo stabilito dal comma 3 dell’art. 1751 c.c. (Cass., 23 aprile 2007, n. 9538; su questi aspetti v. altresì Cass., 19 febbraio 2008, n. 4056; Cass., 9 ottobre 2007, n. 21088; Cass., 12 marzo 2007, n. 5690; Cass., 3 ottobre 2006, n. 21309).
La indennità di cessazione del rapporto, dovuta anche nel caso in cui tale evenienza sia dovuta alla per morte dell’agente, non copre i danni che, a causa delle modalità concrete e le circostanze di fatto che hanno caratterizzato lo svolgersi del rapporto o la fase della sua cessazione (es. violazione di doveri informativi, denigrazione professionale, ingiuriosità del recesso del preponente, ecc.), l’agente abbia subito (Cass., 10 aprile 2008, n. 9426). Tali danno dovranno quindi essere determinati secondo gli ordinari criteri risarcitoti.
Tale indennità non è dovuta peraltro quando: (a) il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto; (b) quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente, quali l’età, l’infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente richiesta la prosecuzione dell’attività; (c) quando ai sensi di un accordo con il preponente l’agente cede ad un terzo i diritti e gli obblighi che ha in virtù del contratto di agenzia. In relazione a queste disposizioni si ritiene che l’inadempimento imputabile all’agente (v. sub “a’) debba essere costituito da fatti di gravità maggiore di quelli che, ove imputabili al preponente, consentono all’agente che a causa di essi sia receduto dal contratto di mantenere il diritto a percepire l’indennità in questione.
Il patto di non concorrenza successivo alla cessazione del rapporto
Le parti possono concludere uno specifico accordo in base al quale l’agente si impegna, per il periodo successivo allo scioglimento del rapporto, a non svolgere per il medesimo campo di attività e tipo di beni e per la medesima area di esclusiva e di clientela, una attività che si ponga in concorrenza con quella del preponente. Il patto di non concorrenza deve essere concluso per iscritto, sotto pena di nullità, e la sua efficacia non può superare i due anni (art. 1751 bis c.c.).
Tuttavia, anche in mancanza del patto di non concorrenza, i vantaggi in termini di avviamento che derivano al preponente dallo svolgimento dell’attività promozionale dell’agente restano a lui acquisiti come bene appartenente alla propria azienda, anche dopo l’estinzione del rapporto di agenzia. Ne deriva che lo sviamento di clientela posto in essere dall’ex agente facendo uso delle conoscenze riservate acquisite nel corso del rapporto costituisce atto di concorrenza sleale (art. 2598, n. 3, c.c.) o illecito extracontrattuale (art. 2043 c.c.) (Cass., 18 agosto 2004, n. 15156).
La tutela del credito dell’agente: prescrizioni, decadenza, privilegi
Il diritto al pagamento delle provvigioni è soggetto a termine di prescrizione breve di 5 anni (art. 2948, n. 4, c.c.) che, diversamente da quanto accade in relazione alla retribuzione del lavoratore subordinato, decorre anche in costanza di rapporto (Cass., 12 agosto 1998, n. 7929); si ritiene in dottrina che il dies a quo del periodo prescrizionale decorra, giusta l’art. 1749, comma 2, c.c., dall’ultimo giorno del mese successivo al trimestre nel corso del quale dette provvigioni sono maturate. Ai sensi dell’art. 1751 c.c. l’indennità di fine rapporto deve essere richiesta dall’agente entro un anno dalla cessazione del rapporto a pena di decadenza; non sono richieste a tal fine formalità di sorta essendo sufficiente che l”intenzione di far valere i propri diritti sia comunicata con qualunque mezzo al preponente. Il diritto di percepire l’indennità di cessazione del rapporto così come l’indennità di mancato preavviso si prescrive nel termine ordinario decennale (Cass,, 16 giugno 2003, n. 9636).
I crediti per provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l’ultimo anno di rapporto e per le indennità dovute per la cessazione del medesimo —purché maturati in favore dell’agente che soddisfi i requisiti di cui all’art. 409 c.p.c. — sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili ai sensi dell’art. 2751bis, n. 3, c.c. Ai sensi dell’art. 2777 c.c. tale privilegio si colloca, unitamente ai crediti dei professionisti, immediatamente dopo le spese di giustizia ed i crediti dei lavoratori subordinati.
I poteri di rappresentanza dell’agente
All’agente possono essere conferiti, mediante autonoma procura (art. 1398 c.c.) ovvero mediante apposita clausola inserita nel contratto di agenzia, poteri che lo legittimino a concludere in nome e per conto del preponente gli affari da lui stesso promossi. In assenza di poteri specificamente a ciò conferiti, l’agente non può esprimere la propria volontà con effetti diretti in capo al preponente. Ciò nonostante la legge conferisce all’agente poteri rappresentativi del preponente limitatamente ad alcuni aspetti della attività dal primo svolta. L’art. 1745, comma 1, cc. stabilisce infatti che «le dichiarazioni che riguardano l’esecuzione del contratto concluso per il tramite dell’agente ed i reclami relativi alle inadempienze contrattuali sono validamente fatti all’agente»; ciò significa che la sede dell’agenzia viene considerata alla stregua di una propaggine dell’impresa preponente. Tra quelle inerenti all’esecuzione del contratto si ritiene rientrino anche le dichiarazioni relative alla merce difettosa ed alla volontà dell’acquirente di restituirla, dichiarazioni che l’agente è tenuto ad inoltrare senza ritardo al preponente.
La “rappresentanza passiva” di cui al comma 1 dell’art. 1745 c.c. non si estende alle notificazioni di atti processuali. L’art. 1745, comma 2, c.c., invece, attribuisce all’agente anche una limitata capacità di agire giudizialmente per tutelare gli interessi del preponente. Tale “rappresentanza. attiva” — il cui esercizio non rappresenta un dovere a carico dell’agente e che può sempre essere eliminata per volontà delle parti — si estende alla richiesta di provvedimenti cautelari nell’interesse del preponente» (ad es. sequestro conservativo) e alla presentazione di «reclami che sono necessari per la conservazione dei diritti spettanti a quest’ultimo.
Fac Simile Contratto di Agenzia
Di seguito è possibile trovare un fac simile contratto di agenzia in formato Doc da scaricare e da utilizzare come esempio. La bozza di contratto di agenzia può essere modificata inserendo i dati delle parti e gli altri elementi contrattuali mancanti, per poi essere convertita in formato PDF o stampata.