In questa guida spieghiamo quali sono le caratteristiche del contratto di appalto tra privati e mettiamo a disposizione un fac simile di contratto da scaricare.
Nozione e caratteri
L’appalto è il contratto con il quale una parte, detta appaltatore, assume, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio e l’altra, detta committente, si impegna a versare un corrispettivo in denaro.
Dalla lettera della legge si evince che l’appalto è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’obbligazione principale dell’appaltatore è la realizzazione dell’opera o del servizio, mentre obbligazione principale del committente è il pagamento del prezzo.
Il contenuto delle obbligazioni principali non è tuttavia sufficiente a distinguere l’appalto da un altro tipo contrattuale, e cioè il contratto d’opera (art. 2222 e ss. c.c.); il criterio discretivo, al riguardo, deve individuarsi nel fatto che l’appaltatore, a differenza del prestatore d’opera, assume il compimento dell’opera o del servizio con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio: all’appaltatore farà quindi capo un’impresa di grandi o medie dimensioni in cui prevalente è il lavoro altrui, mentre il prestatore d’opera fa fronte agli impegni presi con lavoro prevalentemente proprio (Cass., 29 maggio 2001, n. 7307).
La giurisprudenza ha chiarito che non basta la qualità soggettiva di imprenditore perché il contratto rientri nello schema dell’appalto; si rimarrà infatti nell’ambito del contratto d’opera ove risulti che comunque nell’impresa è prevalente l’attività esecutiva dell’imprenditore (cfr. in tal senso, da ultimo: Cass., 4 giugno 1999, n. 5451; Cass., 17 maggio 1997, n. 2321; Cass.,
27 gennaio 1997, n. 819).
È fondamentale che l’appaltatore goda nel compimento dell’opera o del servizio di un certo grado di autonomia: ciò proprio perché egli assume il compimento dell’opera o del servizio con gestione a proprio rischio (Cass., 5 maggio 2003, n. 6754).
Ciò non toglie che la legge dia rilievo all’interesse del committente a che l’opera o il servizio rispondano nel modo più pieno alle sue aspettative ed esigenze: ciò spiega perché, come si vedrà più analiticamente nel corso di questo paragrafo, al committente vengano attribuite numerose facoltà “speciali”, che lo pongono per certi versi in una posizione di privilegio. Si pensi all’incisivo potere di variare unilateralmente il contenuto del contratto ed al potere di recesso unilaterale.
D’altra parte, la giurisprudenza riconosce che l’autonomia propria dell’appaltatore non esclude una funzione direttiva affidata al committente (Trib. Venezia, 15 aprile 1997): non è raro anzi che il committente nomini un direttore dei lavori, il quale assume la rappresentanza del committente limitatamente alla materia strettamente tecnica (Cass., 28 novembre 2001; Cass.,
28 maggio 2001, n. 7242); egli è quindi tenuto ad accertare la conformità al progetto della progressiva realizzazione dell’opera, vigilando ed impartendo le opportune disposizioni a tale riguardo (Cass., 28 novembre 2001, n. 15124; Cass.,
29 agosto 2000, n. 11359). È altresì possibile che il contratto preveda espressamente che l’opera debba essere realizzata in conformità a campioni, modelli, stampi, ecc. forniti dal committente. Queste previsioni sono compatibili con lo schema tipico dell’appalto, nella misura in cui non riducano l’appaltatore a semplice esecutore materiale del progetto del committente: in questo caso, si configura un c.d. appalto a regia che non rientra nel modello legale dell’appalto (Cass., 23 dicembre 1994, n. 11132), con la conseguenza che, ad esempio, non si applicherà alla fattispecie tutta la articolata disciplina sulle difformità ed i vizi dell’opera (v., fra le tante; Cass., 20 febbraio 2008, n. 4364; Cass., 12 maggio 2000, n. 6088; Cass., 22 febbraio 2000, n. 1965; Cass., 26 luglio 1999; n. 8075; Cass., 31 giugno 1999, n. 5455; Trib. Milano, 27 aprile 1994; Trib. Palermo, 29 giugno 1991).
Nella prassi, si presenta talvolta problematica la distinzione tra appalto e vendita; è infatti inevitabile che nella concreta operazione economica elementi dei due tipi contrattuali coesistano quasi sempre: nell’appalto è normale che il committente acquisti la proprietà dell’opera realizzata dall’appaltatore, di regola, anche se non necessariamente (art. 1668 c.c.), con materiali di sua proprietà. Per converso, non è raro che nella vendita alla prestazione principale di dare si accompagnino obblighi di natura accessoria aventi ad oggetto attività: si pensi, ad esempio, al rivenditore di elettrodomestici che, contestualmente alla vendita, provvede a trasportare ed installare l’elettrodomestico in casa del compratore.
Ora, il criterio di distinzione tra appalto e vendita è dato proprio dalla prevalenza del lavoro sulla materia o viceversa: la giurisprudenza ha chiarito che tale prevalenza non va accertata in base ad un parametro puramente oggettivo o quantitativo, quale può essere, ad esempio, il raffronto tra il valore della materia ed il valore della prestazione d’opera. È piuttosto necessario far riferimento all’effettiva volontà dei contraenti, che dirà all’interprete se il trasferimento di proprietà ovvero il compimento di un’attività rappresenti lo scopo essenziale dell’affare (Cass., 26 gennaio 2007, n. 1726; Cass., 2 agosto 2002, n. 11602; Cass., 21 giugno 2000, n. 8445; Cass., 17 dicembre 1999, n. 14029; Cass., 12 aprile 1999, n. 3578; Cass., 13 luglio 1996, n. 6361; Trib. Piacenza, 28 marzo 1995).
Facendo applicazione di questo criterio, si è affermato che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un’area in cambio del fabbricato destinato ad esservi costruito, o di parte di esso, può configurare tanto una permuta quanto un appalto: ricorrerà il primo quando lo scopo essenziale avuto di mira dalle parti è il trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura, rimanendo per così dire sullo sfondo l’obbligo di erigere l’immobile: andrà invece ravvisato un appalto quando la costruzione del fabbricato è stata al centro della volontà delle parti, avendo l’alienazione dell’area carattere meramente strumentale (Cass., 21 novembre 1997, n. 11643; Cass., 5 agosto 1995, n. 8630).
Sulla base dello stesso principio, la giurisprudenza ha ritenuto che integri gli estremi dell’appalto, e non della vendita, la fornitura di oggetti che, di per sé, rientrerebbero nella normale attività produttiva del fornitore quando il fornitore si sia impegnato ad apportare ad essi modifiche sostanziali (Cass., 21 maggio 2001, n. 6925; Cass., 30 marzo 1995, n. 3807, secondo cui è appalto per lavori edili il contratto con cui un imprenditore si era obbligato a fornire al committente un capannone prefabbricato da installare e porre in opera nel luogo indicato dal contratto: Cass., 8 settembre 1994, n. 7697; Cass., 21 giugno 2000, che ha qualificato come appalto il contratto con cui, oltre alla completa fornitura dell’arredamento necessario all’installazione di un bar pasticceria, si preveda anche una complessa attività di progettazione, direzione, nonché di esecuzione dei lavori).
Vi sono tuttavia dei casi in cui la complessità delle esigenze perseguite dalle parti non consente di ricondurre l’affare ad uno schema unitario (vendita o appalto); in tali casi, piuttosto che applicare la disciplina di un solo tipo contrattuale, dovrà procedersi all’integrazione delle discipline relative ai diversi tipi contrattuali (Cass., 2 dicembre 1997, n. 12199).
Va poi ricordato che l’art. 1677 prevede che, se l’appalto ha per oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, si applicano, in quanto compatibili, tanto le norme sull’appalto quanto quelle sulla somministrazione.
È infine importante sottolineare che non è necessario che le parti determinino al momento della conclusione dell’appalto la misura del corrispettivo né il modo di determinarla; in tal caso, infatti, essa è calcolata con riferimento alle tariffe esistenti o agli usi; in mancanza, è determinata dal giudice. Si tratta di una evidente deroga alla disciplina generale che, come è noto, commina la nullità nei casi in cui l’oggetto del contratto non sia determinato né determinabile. La giurisprudenza ha precisato che la determinazione del corrispettivo in base alle tariffe, agli usi, ovvero ad opera del giudice, trova applicazione anche nell’ipotesi in cui sia controversa tra le parti la misura del corrispettivo pattuito e nessuna di esse sia riuscita a provarne la effettiva entità (Cass., 28 agosto 1993, n. 9129; Cass., 20 aprile 1994, n. 3742; Cass., 5 aprile 2000, n. 4192; Cass., 28 luglio 2000, n. 9926).
L’art. 1656 prevede che l’appaltatore possa dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, solo se a ciò è stato autorizzato dal committente. Non è tuttavia necessario che tale autorizzazione si riferisca ad un soggetto determinato: essa è valida anche se preventiva e generica (Cass., 5 settembre 1994, n. 7649). L’accordo intervenuto tra appaltatore-sub-committente e subappaltatore è, sul piano formale, pienamente autonomo dal contratto principale; ciò significa che i patti e le condizioni di quest’ultimo non si trasfondono automaticamente nel subappalto, che può ben contenere clausole difformi da quelle del contratto principale (Cass., 29 maggio 1999, n. 5237; Cass., 24 luglio 2000, n. 9684).
Questa autonomia formale è particolarmente evidente nel campo degli appalti pubblici: il contratto di subappalto stipulato da un appaltatore di un’opera pubblica, in quanto strutturalmente distinto dal contratto principale, rimane sottoposto alla disciplina del codice civile, e in alcun modo gli sono applicabili le disposizioni tipiche degli appalti di opere pubbliche (Cass., 20 giugno 2000, n. 8384).
Forma
L’appalto è un contratto a forma libera (Cass., 6 giugno 2003, n. 1704). Nella prassi, fatta eccezione per gli appalti di cose mobili e di servizi di modesta entità, l’appalto viene di regola concluso per iscritto.
Un discorso a parte va fatto per gli appalti pubblici, cioè per quegli appalti in cui committente è una pubblica amministrazione: è infatti principio generale che gli impegni contrattuali della pubblica amministrazione sono nulli se privi della forma scritta (Cass., 29 gennaio 1999, n. 775; Cass., 8 aprile 1998, n. 3662; Cass., 30 luglio 1996, n. 6908).
Obbligazioni delle parti
Diritti e obblighi del committente
-Diritto di apportare variazioni al progetto
L’art. 1661, comma 1, c.c. prevede la facoltà di apportare variazioni al progetto dell’opera, purché il loro ammontare non superi il sesto del prezzo complessivo convenuto. Entro il suddetto limite, dunque, il committente può modificare unilateralmente l’originario contenuto del contratto e l’appaltatore deve realizzare le variazioni, altrimenti si renderebbe inadempiente.
La dottrina e la giurisprudenza hanno tuttavia individuato dei limiti all’ esercizio dello jus variandi del committente: così si è affermato che il committente non può ordinare delle variazioni che non siano funzionali ad una migliore realizzazione dell’opera (Coll. arb. Roma, 31 luglio 1995); che, in ogni caso, quando la variazione renda particolarmente difficile per l’appaltatore rispettare gli originari termini di consegna, egli è tenuto a concedere un termine suppletivo (Cass., 28 maggio 2001, n. 7242; Cass., 27 febbraio 1995, n. 2290; Cons. giust. amm. Sic. n. 1634 del 1993). In definitiva, i considerati limiti allo jus variandi trovano fondamento nell’obbligo gravante sulle parti di comportarsi secondo buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e di prestarsi reciproca collaborazione. Per espressa previsione dell’art. 1661, non possono essere imposte all’appaltatore le variazioni che, pur essendo contenute nei limiti del sesto del prezzo complessivo, importano notevoli modificazioni della natura dell’opera o dei quantitativi nelle singole categorie di lavori previste nel contratto per l’esecuzione dell’opera medesima.
Le variazioni richieste dal committente possono essere provate dall’appaltatore con qualunque mezzo, comprese le presunzioni (Cass., 28 maggio 2001, n. 7242). Si ritiene che il limite legale allo Jus variandi del committente del sesto del prezzo complessivo dell’opera possa essere derogato dalle parti (Trib. Roma, 14 maggio 2000).
-Diritto di chiedere l’introduzione di variazioni necessarie al progetto; facoltà di recesso
Talora, per l’esecuzione dell’opera a perfetta regola d’arte è necessario apportare modifiche al progetto; potrebbero infatti insorgere problemi e difficoltà di cui in sede di progettazione iniziale non si era tenuto conto (si pensi ad una errata valutazione della natura del suolo, che determina la necessità di costruire le fondazioni di un edificio secondo criteri diversi da quelli programmati; oppure alla necessità di realizzare opere aggiuntive per rendere la struttura di un edificio conforme alle prescrizioni inderogabili della normativa antisismica: Cass., 22 marzo 1993, n. 3353). In tali casi, tanto il committente quanto l’appaltatore hanno diritto di chiedere l’introduzione delle modifiche indispensabili: in mancanza di accordo tra le parti, spetterà al giudice determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni di prezzo (art. 1660, comma 1, c.c.).
Quando le variazioni siano di notevole entità, il committente può senz’altro recedere dal contratto, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo (Cass., 29 luglio 2003, n. 11642; Cass., 8 gennaio 2003, n. 77).
-Variazioni in corso d’opera e diffida ad adempiere
L’art. 1662, comma 1, c.c. riconosce all’appaltatore il diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato.
È evidente che al diritto del committente alla verifica corrisponde l’obbligo dell’appaltatore di consentirla: ne consegue che l’opposizione alla verifica (ad es. tramite la chiusura del cantiere) configura un inadempimento contrattuale; tale inadempimento, qualora sia da ravvisare in esso il requisito della non scarsa importanza, legittima il committente alla risoluzione del contratto (Cass., 23 maggio 1992, n. 6218; Coll. arb., 10 agosto 1984).
Inoltre, è pacifico che l’art. 1662, comma 1, c.c. attribuisce al committente una mera facoltà, e non un onere: ne discende che, anche nel caso in cui egli si fosse astenuto dal compiere ogni verifica durante lo svolgimento dei lavori, egli avrebbe diritto, a lavori ultimati, alla garanzia per vizi e difformità dell’opera, disciplinata dall’art. 1667 c.c. (Cass., 22 marzo 2007, n. 6931; Cass., 27 marzo 2003, n. 4544; Cass., 27 agosto 1993, n. 9064).
D’altra parte, l’attribuzione al committente di un potere di verifica in corso d’opera è strettamente funzionale alla facoltà attribuitagli dall’art. 1662, comma 2: si tratta della facoltà di fissare all’appaltatore un congruo termine entro il quale conformarsi alle condizioni stabilite dal contratto, ovviamente nel caso in cui la verifica abbia evidenziato che l’esecuzione dell’opera o del servizio non procede secondo l’originario programma stabilito dalle parti. Nel caso in cui il termine in questione trascorra inutilmente, il contratto è automaticamente risolto, anche se il committente può chiedere comunque il risarcimento dei danni. Questo meccanismo di tutela richiama molto quello della diffida ad adempiere previsto dall’art. 1454 c.c.: la giurisprudenza ha però chiarito che i presupposti dei due rimedi sono diversi (Cass., 30 maggio 1985, n. 2236). Infatti, mentre la diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 presuppone che l’inadempimento sia già avvenuto, l’art. 1662 presuppone che l’inadempimento sia, per così dire, soltanto potenziale: in altri termini, perché il committente possa ricorrere alla facoltà prevista dalla norma in esame, non un vero inadempimento è necessario, ma solo la concreta possibilità che tale inadempimento si verifichi (ad esempio, perché l’appaltatore procede con evidente lentezza alla realizzazione dell’opera, o utilizza tecniche tali da far prevedere che il risultato del lavoro presenterà difformità rispetto a quanto programmato, ecc.).
-Verifica ad opera ultimata
L’art. 1665, comma 1, c.c. prevede che il committente, prima di ricevere la consegna, abbia il diritto di verificare l’opera.
A differenza della verifica in corso d’opera, tale verifica si configura come un onere per il committente: egli infatti deve eseguirla tempestivamente, non appena l’appaltatore gliene dia la concreta possibilità e, se tralascia di procedervi senza giusti motivi ovvero non ne comunica il risultato entro breve termine, l’opera si considera accettata. Questo significa che il committente perderà il diritto alla garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, almeno per quanto concerne quelle difformità e quei vizi che attraverso la verifica sarebbero sicuramente emersi.
L’opera si considera accettata anche quando il committente riceve l’opera senza riserve: in altri termini, la legge presume che quando il committente prende in consegna l’opera senza formulare riserva alcuna circa la conformità di essa alle previsioni contrattuali e alle previsioni tecniche, egli abbia inteso accettarla senz’altro, rinunciando implicitamente al diritto di verifica (Cass., 12 maggio 2003, n. 7260; Cass., 12 febbraio 1998, n. 1509; Cass., 20 aprile 1994, n. 3742; App. Perugia, 29 settembre 1990). Va però precisato che si tratta di una presunzione iuris tantum, quindi suscettibile di prova contraria (Cass., 6 marzo 2007, n. 5131; Cass., 19 febbraio 2007, n. 3752); essa quindi non opera e il lavoro non può considerarsi accettato quando, anche in mancanza di una espressa formulazione di riserve al momento della presa in consegna dell’opera, il committente abbia comunque in vario modo espresso dubbi e perplessità circa la conformità dell’opera a quanto pattuito (ad es., contestazioni avanzate, anche genericamente, in corso di esecuzione: Cass., 22 novembre 1996, n. 10314).
Prescindendo dalle descritte ipotesi di accettazione presunta, di regola, l’accettazione dell’opera da parte del committente è un atto chiaramente distinto dalla verifica, risolvendosi in una vera e propria manifestazione di volontà, e non in una mera attività (Cass., 6 settembre 2002, n. 12981).
Ciò non toglie che l’accettazione può essere tanto espressa quanto tacita.
A volte accade che le parti abbiano minutamente regolato in contratto le modalità di realizzazione della verifica, prevedendo il rilascio del collaudo da parte del committente. Per collaudo deve intendersi il rilascio di una dichiarazione scritta attestante la conformità dell’opera alla convenzione ed ai dettami della tecnica. Si tratta, in fondo, di una prassi mutuata dagli appalti pubblici, dove il collaudo è prescritto per legge. Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che la previsione convenzionale di una particolare procedura per la verifica e l’accettazione dell’opera non determina l’inapplicabilità delle norme di cui all’art. 1665 c.c.: ne consegue che l’opera deve ugualmente considerarsi accettata quando il committente sia stato ingiustificatamente inerte nell’espletare la verifica o nell’emettere il collaudo, o quando abbia comunque preso in consegna l’opera senza riserve (Cass., 19 gennaio 1996, n. 196).
-Diritto alla revisione del prezzo
Quando per effetto di circostanze imprevedibili, si siano verificate diminuzioni nel costo dei materiali e della mano d’opera, tali da determinare una diminuzione superiore al declino del prezzo complessivo convenuto, il committente può chiedere una riduzione del prezzo.
La variazione del prezzo viene comunque accordata solo per quella differenza che eccede il decimo (art. 1664, comma 1).
Si riconosce che le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata, possano escludere il diritto alla revisione del prezzo del committente, come anche dell’appaltatore (Cass., 21 dicembre 1996, n. 11469); la deroga alla disciplina legale, di regola, non rende il contratto aleatorio, comportando semplicemente un’estensione del rischio contrattuale (Cass., 22 novembre 2000, n. 15112 ; Cass., 15 settembre 1997, n. 8570; Cass., 15 luglio 1996, n. 6393).
Va detto comunque che oggi è altamente improbabile che si verifichi una imprevista diminuzione del costo dei materiali e della manodopera addirittura superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto; in tempi di svalutazione monetaria, è molto più probabile che si verifichi un sensibile aumento dei prezzi dei fattori produttivi e in questo caso sarà l’appaltatore legittimato a chiedere la revisione del prezzo.
-Recesso unilaterale del committente
L’art. 1671 c.c. attribuisce al committente il diritto di recedere dal contratto anche nell’ipotesi in cui sia stata iniziata l’esecuzione dell’opera o del servizio: l’esercizio di tale legittima facoltà gli impone, tuttavia, di corrispondere all’appaltatore un indennizzo pari alle spese sostenute, ai lavori eseguiti ed al mancato guadagno (v. Cass., 31 luglio 2006, n. 17294).
La norma in esame è tuttavia derogabile dalle parti, che legittimamente potrebbero escludere del tutto, ovvero limitare, il descritto potere del committente, oppure convenire conseguenze diverse da quelle previste dalla norma stessa (così Cass., 22 agosto 2002, n. 12368).
-Obbligo di pagare il corrispettivo
Si tratta ovviamente dell’obbligo principale del committente. A norma dell’art. 1665, ultimo comma, tale obbligo diviene attuale solo in seguito all’accettazione dell’opera, ma sono salve le pattuizioni o gli usi contrari. Sulle modalità di pagamento del corrispettivo.
Diritti e obblighi dell’appaltatore
-Richiesta di variazioni al progetto
A norma dell’art. 1659 c.c., l’appaltatore può richiedere l’introduzione di variazioni alle modalità convenute dell’opera, ma l’introduzione è legittima solo ove alla richiesta abbia fatto seguito l’autorizzazione del committente.
La giurisprudenza ha precisato che la disposizione in esame preclude all’appaltatore l’introduzione non autorizzata anche di variazioni che incrementano il pregio dell’opera finale, come ad esempio l’uso di materiali di qualità superiore a quella convenuta. Ciò perché, come si era detto, la disciplina del contratto in esame tutela in modo incisivo l’interesse del committente a che il risultato finale sia conforme, anche nei particolari, a quello che gli era proposto (Cass., 27 luglio 1984, n. 4440).
È importante evidenziare che, a differenza delle variazioni ordinate dal committente – che possono essere provate con qualunque mezzo l’autorizzazione del committente alle modifiche richieste dall’appaltatore deve essere provata per iscritto (art. 1659, comma 2: Cass., 28 maggio 2001, n. 7242). Tale più severo regime probatorio non si applica tuttavia quando le modifiche proposte dall’appaltatore sono di tale natura e importanza da potersi considerare oggetto di un nuovo contratto di appalto (Cass., 25 maggio 1995, n. 5935).
Secondo l’ultimo comma dell’art. 1659, le modificazioni di iniziativa dell’appaltatore autorizzate dal committente non danno diritto ad alcun compenso aggiuntivo, quando il prezzo dell’opera è stato determinato globalmente (c.d. appalto a corpo); le parti possono tuttavia derogare a questa norma.
-Obbligo di eseguire le variazioni ordinate dal committente
Sulla portata e sui limiti di tale obbligo, si rinvia al paragrafo relativo alle variazioni necessarie al progetto
Come si è detto, tali variazioni possono essere richieste da entrambe le parti, così come entrambe sono tenute ad eseguirle. Tuttavia, se l’importo delle variazioni supera il sesto del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore può recedere dal contratto e può ottenere, secondo le circostanze, un’equa indennità.
-Obbligo di denuncia dei difetti della materia
L’appaltatore è tenuto a dare pronto avviso al committente dei difetti della materia da questo fornita, se si scoprono nel corso dell’opera e possono comprometterne la regolare esecuzione.
Questa norma conferma che la presenza dei poteri di ingerenza, anche particolarmente incisivi, del committente nell’esecuzione dei lavori, non vale ad annullare l’autonomia dell’appaltatore che sarà comunque tenuto a rispettare le regole dell’arte, e dunque a controllare la qualità della materia fornita dal committente o dal produttore da questa indicato (Cass., 10 gennaio 1996, n. 169; v. anche Cass., 13 febbraio 1987, n. 1569, che incisivamente definisce l’appaltatore come “tecnico dell’arte”, come tale tenuto a controllare scrupolosamente che i materiali forniti dal committente sono privi di difetti). Per la stessa ragione, l’appaltatore è tenuto — anche in presenza di un direttore dei lavori — a controllare e correggere gli eventuali errori del progetto (Cass., 22 febbraio 2000, n. 1965).
-Diritto al pagamento del corrispettivo
Come si è detto, il diritto dell’appaltatore al pagamento del corrispettivo sorge solo quando l’opera è accettata dal committente. Vale quindi in materia di appalto la regola della postnumerazione del corrispettivo, che tuttavia può essere convenzionalmente derogata.
In particolare, le parti possono prevedere che l’opera venga eseguita per partite (art. 1666 c.c.): in questo caso, ciascuno dei contraenti può chiedere che la verifica sia eseguita per singole partite e, in particolare, l’appaltatore può pretendere un pagamento rateizzato in relazione all’esecuzione delle singole partite. Il pagamento parziale fa presumere l’accettazione della parte di opera pagata (art. 1666, comma 2), con tutte le conseguenze che la legge fa discendere dall’accettazione; questo effetto non si produce nel caso del versamento di singoli acconti. E infatti, mentre nel primo caso il pagamento della porzione dell’opera è subordinato all’avvenuta verifica della stessa, nel secondo caso il versamento degli acconti è del tutto indipendente dal controllo da parte del committente dell’effettivo stato di avanzamento dell’opera (Cass., 28 agosto 2002, n. 12609; Cass., 11 agosto 1993, n. 8752).
-Diritto alla revisione del prezzo e difficoltà nell’esecuzione
Il diritto alla revisione del prezzo dell’appaltatore è perfettamente speculare a quello del committent; ovviamente, in questo caso, il presupposto sarà un imprevisto aumento nel costo dei materiali o della mano d’opera superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto.
Valgono le considerazioni già espresse in ordine alla derogabilità della disciplina legale ed alla non aleatorietà del contratto di appalto in cui le parti abbiano escluso la revisione del prezzo per eccessiva onerosità sopravvenuta.
L’art. 1664, comma 2, contempla invece la diversa ipotesi delle difficoltà di esecuzione manifestatesi in corso d’opera derivanti da cause geologiche, idriche e simili: tali difficoltà danno diritto all’appaltatore di pretendere un equo compenso nel caso in cui abbiano reso la sua prestazione «notevolmente più onerosa». È evidente che la norma si riferisce solamente alle difficoltà dipendenti da cause naturali e non può essere applicata analogicamente anche a fatti sopravvenuti di tipo diverso quali, ad esempio, fatti umani anche se produttivi di effetti identici o analoghi (Cass., 28 mano 2001, n. 4463; Cass., 5 febbraio 1987, n. 1121; Cass., 26 gennaio 1985, n. 387).
Secondo la giurisprudenza più recente, le difficoltà derivanti da cause naturali danno diritto all’equo compenso solo quando, oltre a non essere previste, non erano prevedibili dall’appaltatore al momento della stipula del contratto, sulla base della diligenza media richiesta dall’attività esercitata (Cass., 18 febbraio 2008, n. 3932; Cass., 23 febbraio 1999, n. 12989).
Difformità e vizi dell’opera – Garanzia
Il codice civile, agli artt. 1667 ss., dota il committente di un sistema di tutela nei confronti dei difetti dell’opera oggetto dell’appalto: l’appaltatore è infatti sempre tenuto a dare la garanzia per i vizi e i difetti dell’opera.
Si è già evidenziato che in caso di accettazione (effettiva o presunta) dell’opera da parte del committente, il contenuto della garanzia si riduce notevolmente: essa coprirà solo i vizi non conoscibili e quelli che, pur conosciuti, sono stati taciuti in mala fede dall’appaltatore (Cass., 12 giugno 2000, n. 7969).
Per poter usufruire della garanzia, il committente deve adempiere un onere: egli deve denunziare all’appaltatore, entro sessanta giorni dalla scoperta — non, si badi, dalla consegna – a pena di decadenza, le difformità ed i vizi rilevato (art. 1667, comma 2, c.c.). Tale denuncia non deve contenere un’indicazione dettagliata delle difformità e dei vizi dell’opera, essendo sufficiente ad impedire la decadenza un’indicazione sintetica delle difformità (Cass., 23 gennaio 1999, n. 644).
L’azione di garanzia si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell’opera (Cass., 15 giugno 2007, n. 14039). Tuttavia il committente convenuto può sempre far valere la garanzia purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna.
La denuncia non è tuttavia necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati: in tal caso, la garanzia sarà dovuta anche se il riconoscimento del vizio da parte dell’appaltatore è successivo al decorrere del termine di decadenza (Cass., 23 maggio 2000, n. 6682).
Va specificato qual è il contenuto della garanzia in esame: esso consiste nella possibilità di chiedere l’eliminazione dei vizi o delle difformità a spese dell’appaltatore, oppure la riduzione proporzionale del prezzo (art. 1668, comma 1). Resta estraneo al contenuto della garanzia il risarcimento del danno che può essere chiesto contestualmente o autonomamente dalla eliminazione dei vizi o alla riduzione del prezzo (Cass., 17 aprile 2002, n. 5496; Cass., 2 agosto 2001, n. 10571), in caso di colpa dell’appaltatore (trattandosi di responsabilità contrattuale, la colpa si presume sino a prova contraria: Cass., 26 ottobre 2000, n. 14124). In tali casi, la responsabilità dell’appaltatore va quantificata nella spesa necessaria per l’eliminazione (Cass., 15 maggio 2002, n. 7061).
Sia la garanzia che il risarcimento del danno sono dovuti anche quando il difetto nella realizzazione dell’opera dipende da errori nel progetto fornito dal committente o realizzato da un progettista, non essendo mai l’appaltatore un mero esecutore di ordini (Cass., 2 agosto 2001, n. 10550; Cass., 7 settembre 2000, n. 11783; Cass., 12 maggio 2000, n. 6088). In caso di errori nel progetto, la giurisprudenza ritiene che progettista ed appaltatore siano solidalmente responsabili (Cass., 5 febbraio 2000, n. 1290).
L’art. 1668, comma 2, c.c. prevede che se le difformità e i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto (ex art. 1453 c.c.). La giurisprudenza afferma che la domanda di risoluzione del contratto e quella di riduzione del prezzo non sono reciprocamente incompatibili (Cass., 22 febbraio 1999, n. 475).
Rovina e difetti di cose immobili
Una peculiare ed incisiva ipotesi di responsabilità dell’appaltatore è disciplinata dall’art. 1669 c.c.: tale norma riguarda non l’appalto in genere ma gli appalti aventi ad oggetto beni immobili (edifici o altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata) e ha di mira non la semplice tutela del committente contro l’inadempimento della controparte, ma interessi di carattere generale, quali la sicurezza e l’integrità fisica delle persone.
Si prevede, infatti, che se nel corso di dieci anni dal compimento dell’opera, essa per vizio del suolo o difetto di costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa; costoro hanno però l’onere di denunciare il crollo o il pericolo dello stesso, o comunque i gravi difetti dell’immobile entro un anno dalla scoperta. Per scoperta deve intendersi non il semplice sospetto della gravità delle anomalie costruttive dell’edificio, ma il conseguimento di un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva delle stesse (Cass., 1° febbraio 2008, n. 2460; Cass., 23 gennaio 2008, n. 1463; Cass., 14 novembre 2002, n. 16008; Cass., 6 luglio 2001, n. 9199).
La responsabilità ex art. 1669 si configura esclusivamente quando siano riscontrabili vizi riguardanti la struttura dell’edificio o di una sua parte, non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata (Cass., 20 novembre 2007, n. 24143).
Proprio perché preordinata alla tutela di interessi generali si ritiene che la fattispecie di responsabilità in esame abbia natura extracontrattuale (Cass., 10 settembre 2002, n. 13188; Cass., 2 ottobre 2000, n. 13003; Cass., 11 agosto 2000, n. 10179; Cass., 7 gennaio 2000, n. 81) e che la relativa azione possa essere esperita non solo dal committente o dai suoi aventi causa, ma anche da terzi che siano stati danneggiati dalla rovina dell’immobile (Cass., 6 febbraio 1999, n. 1044; vedi anche Cass., 22 ottobre 2002, n. 14905, in materia di appalto di opere pubbliche).
Come si è detto, il ricorso all’azione prevista dall’art. 1669 è possibile anche in presenza di gravi difetti: premesso che si tratta di qualcosa di più dei semplici difetti che legittimano la domanda di riduzione del prezzo e di eliminazione dei vizi a spese dell’appaltatore, vi è qualche incertezza sull’esatto significato dell’espressione usata dal codice. Dubbio è infatti se essa faccia riferimento alla stabilità dell’opera, per cui i gravi difetti devono essere tali da far minacciare la rovina dell’opera, o se anche un difetto che comprometta semplicemente la fruibilità dell’immobile rientri nella previsione della norma: la giurisprudenza più recente della Cassazione sposa questa seconda tesi (Cass., 7 gennaio 2000, n. 81; Cass., 8 gennaio 2000, n. 117, dove si considerano gravi difetti le infiltrazioni d’acqua determinate da gravi carenze dell’impermeabilizzazione, tali da incidere sulla funzionalità dell’opera menomandone il godimento).
Impossibilità di esecuzione dell’opera
Se l’opera è divenuta impossibile in presenza di causa non imputabile ad alcuna delle parti, il contratto si scioglie ed il committente deve pagare la parte dell’opera già compiuta, nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera.
Deterioramento della cosa
Tale evento patologico, disciplinato dall’art. 1673 c.c., produce lo scioglimento del contratto, quando sia derivante da causa non imputabile ad alcuna delle parti, e ovviamente, quando cada prima che l’opera sia accettata dal committente: resta da vedere su quale dei due contraenti ricada il rischio della perdita della cosa. Al riguardo, la norma in esame prevede che, qualora l’appaltatore abbia fornito la materia, il perimento o il deterioramento resti integralmente a suo carico: ciò perché in questo caso, prima dell’accettazione l’opera è sicuramente di proprietà dell’appaltatore.
Quando invece la materia è stata fornita in tutto o in parte dal committente, il perimento o il deterioramento dell’opera resta a suo carico per quanto concerne la materia da lui fornita, mentre per il resto è a carico dell’appaltatore.
Fac Simile Contratto di Appalto tra Privati
Di seguito è possibile trovare un fac simile contratto di appalto tra privati in formato Doc da scaricare e da utilizzare come esempio. La bozza di contratto di appalto tra privati può essere modificata inserendo i dati delle parti e gli altri elementi contrattuali mancanti, per poi essere convertita in formato PDF o stampata.